Un Finale di partita per Glauco Mauri e Roberto Sturno diretti da Andrea Baracco. Il testo di Beckett è uno dei più significativi di tutta la sua opera nel parlare dell’insensatezza della condizione umana, dell’insondabilità dell’universo e dell’umano, del tentativo di esprimere l’inesprimibile: un teatro di personaggi che si fissano nella memoria, vivi e palpitanti, più di tanti altri della cosiddetta drammaturgia di stampo realistico.
L’opera di Beckett è una parodia, unica forma che beffeggia le altre nell’epoca della loro impossibilità, dell’esistenzialismo come riflessione sull’individualità, la solitudine dell’io di fronte al mondo, l’inutilità, la precarietà, il fallimento, l’assurdo dell’esistere, i limiti e le possibilità della libertà individuale, incentrando queste riflessioni intorno alla domanda: che cosa vuol dire esistere?
Il teatro non può far altro che dichiarare la negatività del presente e avere una sua positività proprio nella dichiarazione del negativo.
Una produzione Compagnia Mauri Sturno.
Trama
“To play”: recitare o giocare una pseudopartita di scacchi. Finale di partita si svolge in una stanza (rifugio post-atomico, cervello umano, ventre materno) senza mobili; la luce è grigiastra e i personaggi sono Hamm, cieco e su una sedia a rotelle, i suoi genitori Nagg e Nell, senza gambe e conficcati in due bidoni della spazzatura, e il suo servitore, Clov, che non può sedersi mai.
Beckett esistenzialista anticonformista, disconosce ogni esegesi logica demolendo il senso e la ricerca di esso con la non consequenzialità dei contenuti e la frammentazione nella forma prolifica di virgole, frasi brevi e linguaggio in stato di decomposizione.
Dopo la Seconda guerra mondiale tutto è distrutto e Finale di partita si rassegna all’impossibilità di rappresentare ancora qualcosa: non c’è più natura, non più gabbiani; nient’altro che puzza di cadaveri ovunque.
Secondo Theodor W. Adorno e il suo Tentativo di capire finale di partita non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti e il tirare a campare non ha un’equivalenza di senso nel linguaggio svuotato dall’interno, “il non significar nulla diventa l’unico significato” del teatro di Beckett. Soltanto l’esistenza forzata di larve umane che continuano una partita, annaspando intorno a una zecca e a un topo per paura che l’umanità si ricostituisca.
Nello spettacolo tutto ciò è assolutamente evidente: due bidoni, la sedia a rotelle, la scala che dà sulle finestre in alto, un luogo installativo, uno spazio autosufficiente che sembra non avere necessità di altro se non di se stesso per essere significante. Poi, loro, gli unici abitanti plausibili e possibili di quel luogo, Hamm e Clov da una lato e Neg e Nell, i genitori di Hamm, dall’altro, impensabili l’uno senza l’altro, come tante coppie comiche del cinema muto impossibili da immaginare separati.
Note di regia
“Sono complementari, ma ostili, ferocemente legati l’uno all’altro, Clov con un passo fuori dalla porta, da sempre e per sempre in procinto di varcare la soglia e via, scapparsene via, Hamm che, da parte sua, non fa altro che invitarlo costantemente verso l’uscita, e neppure in maniera tanto delicata, più con violenti spintoni che con amorevoli saluti”.
Andrea Baracco