Il nome della rosa è un omaggio a Umberto Eco, nella prima versione teatrale italiana di Stefano Massini, per la regia di Leo Muscato.
Un cast di tredici attori danno vita a quaranta personaggi, con una recitazione molto empatica, colloquiale, quotidiana, per uno spettacolo che, nell’insieme, ha un taglio quasi cinematografico.
Se è vero che al centro dell’opera di Eco vi è la feroce lotta fra chi si crede in possesso della verità e agisce con tutti i mezzi per difenderla, e chi al contrario concepisce la verità come la libera conquista dell’intelletto umano, è altrettanto vero che non è la fede a essere messa in discussione, ma due modi di viverla differenti.
Una produzione Teatro Stabile di Torino, Teatro Stabile di Genova e Teatro Stabile del Veneto, in accordo con Gianluca Ramazzotti per Artù e con Alessandro Longobardi per Viola Produzioni, realizzata con il sostegno di Fideuram.
Trama
La prima versione teatrale de Il nome della rosa di Umberto Eco è l’omaggio al celebre scrittore firmato da Stefano Massini. Leo Muscato dirige un cast di grandi interpreti, in un crossover generazionale che non manca di animare un testo scritto per la scena, ma all’altezza del grande romanzo.
Tradotto in 47 lingue, Il nome della rosa ha vinto il Premio Strega nel 1981, e la sua versione cinematografica è stata diretta da Jean-Jacques Annaud nel 1986, protagonista Sean Connery. Muscato, che alterna regie di prosa a quelle liriche, ha trovato nel romanzo di Eco una sfida appassionante.
La struttura stessa è di forte matrice teatrale. Vi è un prologo, una scansione temporale in sette giorni, e la suddivisione di ogni singola giornate in otto capitoli, che corrispondono alle ore liturgiche del convento (Mattutino, Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta). Ogni capitolo è introdotto da un sottotitolo utile a orientare il lettore, che in questo modo sa già cosa accade prima ancora di leggerlo; quindi la sua attenzione non è focalizzata da cosa accadrà, ma dal come. Questa modalità ai teatranti ricorda i cartelli di brechtiana memoria e lo straniamento che ha caratterizzato la sua drammaturgia.
La scena si apre sul finire del XIV secolo. Un vecchio frate benedettino, Adso da Melk, è intento a scrivere delle memorie in cui narra alcuni terribili avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù. Nel nostro spettacolo, questo io narrante diventa una figura quasi kantoriana, sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta, accaduti molti anni prima in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Sotto i suoi (e i nostri) occhi si materializza un se stesso giovane, poco più che adolescente, intento a seguire gli insegnamenti di un dotto frate francescano, che nel passato era stato anche inquisitore: Guglielmo da Baskerville.
Siamo nel momento culminante della lotta tra Chiesa e Impero, che travaglia l’Europa da diversi secoli e Guglielmo da Baskerville è stato chiamato per compiere una missione, il cui fine ultimo sembra ignoto anche a lui. Su uno sfondo storico-politico-teologico, si dipana un racconto dal ritmo serrato in cui l’azione principale sembra essere la risoluzione di un giallo.
Delle musiche originali, frammiste a canti gregoriani eseguiti a cappella dagli stessi interpreti, contribuiscono a creare luoghi di astrazione in cui la parola si fa materia per una fruizione antinaturalistica della vicenda narrata, e alimenta nello spettatore una dimensione percettiva che lo porta a dimenticarsi, per un paio d’ore, del meraviglioso film di Jean-Jacques Annaud.
Note di regia
“Abbiamo immaginato uno spettacolo in cui la dimensione del ricordo del vecchio Adso potesse diventare la struttura portante dell’intero impianto scenico. Questo è concepito come una scatola magica in continua trasformazione che evoca i diversi luoghi dell’azione: una biblioteca, una cappella, una cella, una cucina, un ossario, una mensa”.
Leo Muscato