Nuovo allestimento 2019
La Natura delle cose di Virgilio Sieni, si basa sul poema filosofico-enciclopedico di Lucrezio, De rerum natura.
I cinque danzatori attraversano le tre scene dando vita a un compatto quartetto di uomini e a una figura femminile metamorfica e sempre presente, come la Venere-dea dell’atto generativo evocata da Lucrezio all’inizio del suo poema.
La scelta del De rerum natura coincide con l’urgenza di rivolgersi alla natura delle cose, alla loro anima e origine, ponendo la danza come strumento di indagine e come manifesto per una riflessione sull’oggi.
La drammaturgia è stata elaborata a partire dal testo di Lucrezio; a questo scopo Virgilio Sieni si è avvalso della prestigiosa collaborazione di Giorgio Agamben, tra i più importanti e originali filosofi del nostro tempo, noto e tradotto a livello mondiale.
La musica è una creazione originale di Francesco Giomi, compositore e direttore del centro Tempo Reale Firenze.
Il testo dello spettacolo è stato letto e registrato dalla celebre cantante Nada, che per la prima volta offre il suo contributo vocale in uno spettacolo coreografico.
Attraverso una partitura di elementi sottili, dove la luce sembra sostituirsi al corpo e il senso del vuoto all’apparizione di corpi trasfigurati e galleggianti, si apre uno squarcio su un corpo unico che abita la scena: un corpo che comprende altri corpi, altre forme; che lancia messaggi di pace e che si rivolge all’ascolto, alla democrazia e alla libertà della tecnica, al senso laico del mistero.
Una complessa macchina fisica che permette a Venere, presenza umana e pupazzo allo stesso tempo, di muoversi in una prolungata sospensione corporea, per poi discendere lentamente, per gradi, fino a terra.
Su questi temi lo spettacolo incontra lo spirito e gli intenti del filosofo latino, riflettendo sull’oggi.
Lucrezio dà vita a un discorso scientifico sul movimento degli atomi e dei corpuscoli per arrivare a individuare all’interno delle cose una dialettica tra delizia e orrore, tra nascita e morte, tra voluttà e disgregazione, legando a un’analisi materialistica della realtà lo sviluppo necessario dell’etica e del sentimento; così la danza, partendo dalla costruzione coreografica e dalla riflessione sul movimento del corpo nella scena, arriva a definire una poesia fisica che richiama uno sguardo pronto ad aprirsi su accadimenti estremi e impressionanti, che sfuggono al dominio della razionalità. È in questa dimensione che i corpi si mostrano allo stesso tempo ricoperti di simulacri e denudati, e si mostrano nel loro atto di genesi e di costruzione, nel loro formarsi e trasformarsi; qui la pelle si espone al vuoto, fondando un tempo che si apre alla sospensione e affermando decisamente, con Lucrezio, che “nulla nasce da nulla”.
Note di regia
“La natura delle cose, la scena come messa a nudo del corpo.
Ogni momento è tenue, e il gruppo dei cinque danzatori, inteso come un corpo unico, procura gesti allo spazio, gesti non rituali, ma una continua liberazione del gesto in un altro.
Si apre con un simulacro, non un’immagine. Si stacca dal corpo del danzatore o dell’uomo, quest’immagine della mente che ha la capacità di spostare la percezione del proprio equilibrio: in effetti nell’incubo, come nell’immagine riflessa, si può dire che lo sguardo non è rivolto verso l’interno ma si azzera per concedere spazio ad altro e all’altro; e il simulacro ci guida nella danza come nelle tre scene.
Venere attraversa tre età. Prima undicenne, poi bambina di due anni, infine anziana di ottanta. Non un’esatta ciclicità ma un rimbalzo nel tempo, non un’inversione temporale ma la traccia della memoria nel corpo dell’adulto. In questo senso la struttura è stata determinata dalla postura del corpo e di come esso si è costruito nelle epoche. Venere prima è sospesa; poi tocca terra, busto eretto perfettamente in asse; infine, nella terza scena, dal vuoto ci guarda negli occhi, ventre a terra. Venere, dunque, è anche discesa, caduta e declinazione, è lo sguardo di ogni momento, sempre più tenue.
Per venti minuti Venere non mette piede in terra, veramente. Una fonte d’incanto e di delizia, sospesa, sorretta e agita da quattro uomini che la guidano nella dinamica. Ogni volta, limitandosi ad un andamento adagio con cedimenti continui, si pensa alle inclinazioni che subiscono gli atomi in un momento incerto, quando, durante la loro caduta verticale, incontrano un punto imprecisato in assenza di materia. Così non penso al volo, quanto ad un meccanismo messo in partitura dove il corpo di Venere è clinamen, quella piccolissima declinazione e tensione degli atomi indicata da Lucrezio. Sono le immagini che scorrono a definire il corpo come momentaneo, membrana sottile che tende incessantemente a staccarsi.
E in effetti la danza nella seconda scena strappa le immagini, i simulacri, dal corpo del danzatore, e tende la pelle per disporre i ‘quasi organi’ che rumoreggiano dentro e che qui ‘impressionano’ per il martellante isolamento di ogni figura, di ogni atomo di dinamica: Venere stacca fisicamente le membra per disporle e adattarle alla danza, o meglio, alle sospensioni della danza.
La terza scena si presenta come coniunctume eventum. Un incontro momentaneo prodotto dal clinamen: vuoti continui di spazio dove l’anziana, tra inesistenti tuoni, nebbie, vulcani e pestilenze, dà uso di sé nel declinare con arte lo sguardo ad ogni gesto.
E in tutto questo esserci nello spettacolo a cosa guardiamo infine? Vi è lo spazio tra delizia e amaro che possa riscattare il teatro. E il teatro, non solo quello dell’ora notturna, ma il pane che azzanniamo quotidianamente come necessità e desiderio, è ancora quell’urto indefinito nella ‘momentaneità’ di chi guarda, di chi partecipa?
Ancora, oggi, varcando gli spazi che accolgono i corpi, immagino sempre un danzatore, o un angelo, un beato senza organi, che fa nascere il ballo da una sempre tenuissima e tesissima musica interiore.”
Virgilio Sieni