Skopje 27 settembre – 2 ottobre 2022
«L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi.»
Le Corbusier
Un trionfante Alessandro Magno a cavallo, il padre Filippo II in bronzo con il pugno verso il cielo su una colonna gigante che emerge da una fontana zampillante. Queste due mastodontiche statue, affacciate entrambe verso il fiume Vardar, vigilano sul ponte di pietra costruito nel XV secolo che simboleggia il raccordo fra la città antica e nuova di Skopje. Una simile triangolazione racchiude e rappresenta le diverse anime della capitale della Macedonia, nelle sue verità, nelle sue contraddizioni.
Le città non sono solo accentramenti di soluzioni abitative, ma sono il risultato di aggregazioni culturali, sociali, economiche. Le vie, le strade, i marciapiedi, sono innanzitutto luoghi ideali, dove le intenzioni dei passanti costruiscono le identità dei luoghi che attraversano.
Quante volte le toponomastiche delle nostre città ci raccontano la storia della realtà che quel specifico tratto ha vissuto?
Quanto spesso i luoghi cambiano la propria natura rispetto all’uso che ne facciamo?
Quando li rivalorizziamo, li chiudiamo, o semplicemente li abitiamo?
Con Ivana Dragsic – sociologa, attivista e assistente sociale – parliamo dell’importanza del bene comune, non inteso come spazio fisico di pubblica proprietà, ma come espressione di comunità. Ivana ci fa così scoprire la Skopje disegnata dai politici comunisti jugoslavi, e possiamo osservare come la narrativa onnipresente di fratellanza e unitàche pervade lo spazio pubblico politico e architettonico non è così reale: l’eredità ottomana è relegata dall’altra parte del fiume, non ci sono luoghi destinati alla cittadinanza attiva. Ed è allora che nascono esperienze come quella di Amok Radio, un piccolo bar che diventa circolo culturale, spazio performativo, pub dove possono esibirsi i più famosi Dj contemporanei, ma soprattutto luogo di aggregazione. Un’esperienza che ci ricorda come a volte nell’impossibilità di poter avere uno spazio (anche concreto/fisico) per dare voce alla collettività, l’esigenza è talmente intrinseca nella nostra umanità che spesso poi trova una via per manifestarsi, talvolta a suon di musica.
Ma Skopje è anche la città più futuristica dei Balcani, quella che è più differente nella sua conformazione architettonica e paesaggistica dalle altre capitali dell’ex Jugoslavia.
Nel 1963 un terribile terremoto distrugge gran parte della città.
Nel 1980 Tito muore e la Jugoslavia crolla.
Nel 1991 la Macedonia diviene Stato indipendente e nel 2011 il governo approva Skopje2014, la città per come la vediamo oggi, è quella dopo costruita dopo la realizzazione di questo progetto.
Ce lo racconta Meri Batakoja, architetta e docente di progettazione alla Facoltà di architettura dell’Università San Cirillo e Metodio, ma soprattutto ricercatrice devota a Skopje, la sua città natale, che l’ha vista cadere, cambiare, modificarsi, tramutare. Il progetto finanziato dal governo macedone è basato su un’idea di stato nazionale macedone. Lo scopo è quello di dare alla città un aspetto classicheggiante, con stilemi recuperati dall’ellenismo, e caratterizzato da un insieme di monumenti ed edifici che richiamo il passato della regione, sovente mitico e più spesso reinterpretato attraverso operazioni revisionistiche. Alessandro Magno e Filippo II sono statue contemporanee, non lasciti del passato.
“L’arte ha segnato l’inizio e la fine della crisi politica in Macedonia” questo era il monito.
Ma è davvero una responsabilità dell’arte tradurre le intenzionalità di chi governa?
Hristina Ivanoska – attrice, attivista e performer – che incontriamo l’ultimo giorno, per quasi due decenni ha incentrato la sua ricerca sui temi della soppressione, del controllo e della costruzione della memoria collettiva rispetto alle strategie e alla politica di resistenza delle donne (tra i suoi lavori il video Naming the Bridge: Rosa Plaveva and Nakie Bajram e una serie di performance, i Document Missing).
Ed è proprio con lei che conosciamo la storia di Rosa Plaveva e Nakie Bajram (due attiviste che spesero la loro vita per nei processi di emancipazione in Macedonia nella prima metà del 20° secolo) che è sono diventate, con lei (grazie a lei), parte della narrativa della città. Ci sono voluti 16 anni perché la richiesta di Ivanoska da iniziativa civica diventasse una memoria collettiva che incoraggiasse la volontà politica a realizzarla. Il ponte Todor Alexandrov, popolarmente chiamato Twin Bridge, è stato ribattezzato Rosa Plaveva e Nakie Bajram Bridge solo nel 2021.
A volte, una piccola targa è più grande di una colossale statua.
Qual è la lezione di questa città?
L’architetto Richard Mayer una volta disse: «Quando mi chiedono in che cosa credo, rispondo che io credo nell’architettura. L’architettura è la madre delle arti. Mi piace credere che l’architettura collega il presente con il passato e il tangibile con l’intangibile».
Quanto nelle nostre città si parla del passato, quanto si parla del nostro futuro.
Quanto è importante ricordare che l’arte esprime anche questo: la necessità di ricordare chi siamo stati ieri, chi siamo oggi e cosa vogliamo dal domani.
Perché a volte l’arte è proprio quello spiraglio di luce che passa attraverso le crepe delle nostre convinzioni, delle nostre vite, della nostra società. E se da una parte ne rivela la crudezza, la tragicità e le contraddizioni, ha essa stessa la capacità di rivelarne la potenza con la dolcezza del suo essere intrinsecamente senza intenzioni, se non quella di costringerci a prendere atto della nostro esser parte dell’umanità in cammino.
Chiara Donà
Relazioni e Progetti internazionali Teatro della Toscana